Tutto il giorno tutti i giornieditore / publisher
ViaDellaTerra progetto editoriale / publishing project Graziella Anesi, Handicrea, Piero Cavagna, ViaDellaTerra immagini / images Piero Cavagna prefazione / preface Ferdinando Scianna coordinamento editoriale / editorial coordination ViaDellaTerra progetto grafico / graphics project Giancarlo Stefanati dimensioni / size cm 21,0 x 14,8 pagine / pages 128 lingua / language Italiano / Italian copertina / cover cartonata / hardcover edizione / edition 2005 settembre / september ISBN 88-7558-019-7 Ferdinando Scianna Questo lavoro non ha davvero bisogno di un mio intervento. Tuttavia considero un privilegio che mi sia stato chiesto. Non conoscevo Piero Cavagna. La scorsa primavera mi ha chiamato per proporre di mostrarmi un suo lavoro. Rispondo sempre positivamente a queste proposte. Per curiosità del lavoro altrui, ma anche perché lo considero un dovere, un prezzo lieve per la fortuna che ho avuto come fotografo e di cui non sempre riesco a spiegarmi le ragioni. Molto spesso, purtroppo, questi incontri, benché sempre interessanti, si rivelano inutili, qualche volta irritanti. Ho la presunzione, che poche volte si è rivelata sbagliata, di decifrare il tipo di persona che c’è dietro le fotografie che mi vengono mostrate con più chiarezza che ascoltando le storie che su se stessi e sul proprio lavoro i fotografi raccontano. Piero Cavagna è persona di pochissime parole. Ma il suo lavoro sui disabili mi ha subito colpito, toccato, persuaso. E gliel’ho detto. E, naturalmente, ho accettato, quando avesse voluto, di scriverne. E’ scomparso per mesi. Pochi giorni fa si è rifatto vivo chiedendomi con urgenza quel testo. In Italia le cose vanno così. Complicate lentezze e poi, improvvisamente, decisioni fulminee, qualche volta frettolose. Ma frettoloso non è Piero Cavagna nell’affrontare i suoi temi. E’ stata la prima cosa che mi ha colpito. Bisogna dire, con rammarico, che ci sono temi dolorosi che, nell’inflazione di comunicazione contemporanea, hanno finito col trasformarsi in luoghi comuni, in “generi” fotografici, in pretesti della vanità e dell’opportunismo di quanti, istituzioni pubbliche, organizzazioni di assistenza, moltissimi fotografi, affrontano temi amari e difficili con frettolosa superficialità. Senza riuscire a nascondere sotto il velo fragile della buona coscienza, la loro strumentalità, la mancanza di una vera partecipazione morale, intellettuale, stilistica con i problemi affrontati e con le persone fotografate. I documentari sui disabili, tanto numerosi quanto inutili, fanno spesso parte di questa maniera di affrontare certi temi. E’ una verità che potrebbe essere aggiunta all’amaro elenco compilato sull’argomento nello splendido scritto di Giuliano Beltrami. Cartier Bresson, maestro e amico, diceva che il tempo restituisce il rispetto con cui lo si tratta. E, insuperabilmente, ci ha insegnato che fotografare, fotografare bene, significa mettere sulla stessa linea di mira l’occhio, la mente e il cuore. La prima cosa che salta agli occhi, è il caso di dire, nel lavoro di Piero Cavagna, è il rispetto del tempo con cui lo ha messo insieme. La scelta del tempo lungo non è soltanto frutto di un’esigenza di approfondimento. Corrisponde ad una necessità morale, intellettuale e, direi soprattutto, stilistica. La lentezza, infatti, è un elemento chiave nell’universo della disabilità. Lentezza imposta dalle variegate forme dell’ingiustizia della natura, ma anche, mirabilmente, strumento principe che le persone che ne sono vittime sanno trasformare, con pazienza e coraggio infiniti, nella via più importante, spesso l’unica, per riuscire a vivere comunque una vita degna e umana. Piero è stato con loro a lungo, le fotografie lo dimostrano. Per personale simpatia e solidarietà, certo, per pudore, ma anche perché questo era l’unico modo per capire, sentire, vedere il problema che ciascuno di loro doveva affrontare, farlo suo, per poterlo decifrare con esattezza, per trovare il giusto modo, all’interno delle possibilità e dei limiti del linguaggio fotografico, per tentare di esprimerlo con il massimo di verità e chiarezza. La lentezza, dunque, bisognava affrontare il tema della lentezza come condanna e come riscatto. Problema non facile in fotografia. Cavagna ha trovato una appassionante soluzione. E come spesso avviene per le soluzioni stilistiche, l’ha trovata nella storia stessa della fotografia. Per esempio nella scomposizione del movimento che Muybridge ha realizzato nelle sue serie di Man in motion, o Animals in motion . Ma là si trattava di rivelare, scomponendole e immobilizzandole per istanti separati, le varie fasi di un movimento veloce, troppo veloce per essere visto nella sua reale natura. Nessuno sospettava, prima delle foto di Muybridge, nemmeno i pittori che li dipingevano, che i cavalli divaricano contemporaneamente le quattro zampe nel momento centrale del galoppo. Qui si trattava, al contrario, di raccontare la sovrumana lentezza necessaria ad un disabile per compiere certi gesti ovvi, banali, troppo ovvi e banali e quotidianamente ripetuti mille volte perché una persona sana riesca persino a concepirne la complessità, lo sforzo, la disciplina cui per anni deve sottoporsi un disabile per riuscire a compierli. Farsi il caffè, per esempio. Andare a letto uscendo dalla propria sedia a rotelle come fa Graziella, che ci metteva venti minuti all’inizio e che dopo tre anni di sforzi e di allenamenti e di razionalizzazioni di ogni infinitesimo gesto riesce a farlo in soli tre minuti. Soltanto tre minuti: provate a farlo una volta sola da una normale sedia a metterci anche soltanto tre minuti per trasferirvi su un letto! Un’impresa più memorabile, ai miei occhi, che la scalata del K2! Come quella di Domenico, che ci ha messo due anni per imparare a raccogliere da terra una palla riuscendo nell’impresa titanica di farlo senza cadere. La lentezza riguarda tutti i disabili, in un modo o in un altro. Ma non c’è solo la lentezza, c’è anche la difficoltà di vivere in un mondo fatto per chi può muoversi, saltare, vedere, scansare i passanti, le automobili. Per gli ipovedenti, per esempio, Cavagna ha usato le tecniche della sfocatura controllata per farci immaginare, soltanto immaginare, che cosa significa attraversare una città in simili condizioni. La notte dei ciechi totali non la vediamo, come loro non vedono la nostra luce. Avrei voglia di trascrivere per intero dalla lettera di Piero Cavagna l’elenco commosso delle persone di cui ha condiviso le giornate, la vita, gli sconforti e gli entusiasmi cercando di raccontarli da fotografo, con intelligenza tecnica ed espressiva, con pudore e solidarietà. Ma non ha affrontato Piero soltanto i problemi. Ci racconta anche e soprattutto le difficili soluzioni, l’energia e il coraggio con cui queste persone hanno saputo trasformare un calvario in vita, vita vera, umana e molto spesso più allegra e consapevole di chi ignora il privilegio della salute. Come sono fantastici i voli del cieco Giuliano. Come sono luminosi i volti di Marco e Betty, lui spastico dalla nascita, lei sulla carrozzina dopo un incidente, entrambi laureati, che si sono conosciuti via internet, e ci sorridono sulla porta della chiesa il giorno del loro matrimonio. Non puoi più usare i muscoli? Bene, signor Enzo Piffer, adesso usa il cervello. Così ha trovato la forza di rispondersi, uscendo dal tunnel di un incidente che lo aveva paralizzato per sempre, l’attuale assessore comunale. Un altro personaggio tra i tanti che incontriamo, che giocano, dipingono, fanno sport, ballano, pensano, soffrono, ridono, con una vitalità e una energia che è forse il regalo che fanno a noi sani per farci vergognare meno della nostra distrazione, della nostra indifferenza. Perché forse il problema più difficile da affrontare, da sormontare, per loro, per i disabili, siamo noi, i sani. C’è una foto conclusiva di questo lavoro che mi ha fatto subito pensare all’altra, memorabile, di Elliott Erwitt, scattata in uno stato del sud degli Stati Uniti. C’è uno squallido lavabo, ma ci sono due lavandini, uno più alto e pretenzioso sormontato dalla scritta White people, e accanto, un altro, più piccolo e sordido, sormontato dalla scritta Black only, nel quale un uomo di colore si sta lavando le mani. Un semplicissimo, potentissimo, sarcastico monumento alla stupidità umana, più efficace di mille saggi sul razzismo. La foto di Cavagna ci mostra la parete di ingresso di un condominio dove sono allineate le cassette per le lettere. Due di esse sono state abbassate, per i disabili. Sopra rimane l’alone della loro precedente posizione e persino i buchi delle viti. Un monumento alla sciatteria e all’insensibilità. |